Salvini, la Madonna e il rosario. Uno sfregio inaccettabile

L'editoriale di Gugliemo Frezza in uscita sul prossimo numero de La Difesa del popolo e già online

Ci sono commenti che non vorremmo scrivere, specie alla vigilia di un voto importante.

Ma ci sono gesti e ci sono parole che non avremmo voluto vedere né sentire. E rimanere in silenzio, in alcuni casi, potrà anche essere rispettoso della par condicio ma non lo è della decenza.

Prima i gesti e le parole, però, casomai a qualcuno fossero sfuggiti: «Ci affidiamo ai sei patroni di questa Europa: a san Benedetto da Norcia, a santa Brigida di Svezia, a santa Caterina da Siena, ai santi Cirillo e Metodio, a santa Teresa Benedetta della Croce. […] Io personalmente affido l’Italia, la mia e la vostra vita al cuore immacolato di Maria che sono sicuro ci porterà alla vittoria». Così Matteo Salvini sabato 18 maggio, stringendo in mano e mostrando alla folla il rosario, a conclusione del comizio che ha visto riuniti tutti i leader che ci siamo ormai abituati a definire “sovranisti”, da Geert Wilders a Marine Le Pen.

«Sono l’ultimo dei buoni cristiani: sono divorziato, sono peccatore, dico le parolacce, vado a messa tre volte l’anno. Ma difendo la nostra storia, l’esistenza delle scuole cattoliche. Non so se sono un buon cattolico ma sono un uomo felice e chiedo rispetto. Se credo in Dio e chiedo la protezione di Maria, dà fastidio a qualcuno?».

La sera, in televisione, il “capitano” – così ama farsi definire dai suoi strateghi della comunicazione – risponde al fiume di critiche con parole che all’apparenza suonano di umano buon senso e muovono all’empatia.

Facile per l’ascoltatore riconoscersi nel ritratto del Matteo che cerca faticosamente di essere un buon cristiano… proprio come ciascuno di noi. Facile immedesimarsi nei suoi “tormenti”, fino al punto di non cogliere più il senso profondo dello sfregio che si è consumato in piazza a Milano.

Perché una cosa deve essere chiara: l’immagine proiettata da piazza Duomo in tutte le case e su tutti gli schermi è uno sfregio, che ci ferisce innanzitutto come credenti ma dovrebbe farci male anche come cittadini.

Che Salvini sia un buono o un cattivo cristiano, che vada o meno a messa con regolarità, che pecchi o non pecchi a noi non interessa. Ne parli semmai col suo confessore, se ce l’ha. Ma la politica – a maggior ragione quando si è vicepresidenti del governo – è cosa ben diversa dai personali cammini di fede. Così come peccato non è sinonimo di reato.

Sabato Maria è diventata uno slogan da campagna elettorale, una divina testimonial, un vessillo da far sventolare in piazza.

La dolce madre di Gesù si è trasformata nella condottiera di un novello esercito di crociati pronti a muovere alla ri-conquista dell’Europa, nemmeno fossimo ancora ai tempi della Giovanna d’Arco che tanto infiamma il cuore di Marine Le Pen.

Il rosario è parso un’arma da brandire contro i nemici. E la religione si è fatta strumento politico, buono a eccitare le piazze e occupare i palcoscenici mediatici. Tutto questo, diciamolo a voce alta, è la peggiore offesa che si possa rivolgere ai credenti.

«Se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio», ha scritto a caldo padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica.

Al netto degli errori del passato, vale la pena ricordare che cent’anni fa è stato un prete, don Luigi Sturzo, a insegnarci col suo appello ai liberi e forti (e non ai cattolici, guarda un po’…) che la politica è il campo della laicità, in cui siamo chiamati a impegnarci come cittadini e non come membri di una chiesa, ricercando l’incontro ed esercitando l’arte nobile del compromesso.

Dal mondo cattolico sono germogliati don Sturzo e De Gasperi, e insieme e dopo di loro schiere di ministri, parlamentari, sindaci. I nostri lettori provino a riandare con la memoria al passato: chi di loro si è mai permesso di invocare la Vergine o agitare rosari ai comizi? Quando mai la lotta politica, anche nei momenti più aspri, si è trasformata in lotta nel nome di Dio e non in nome della democrazia, della giustizia sociale, della libertà, della pace?

«Dio è di tutti. Invocare Dio per se stessi è sempre molto pericoloso», ha ammonito il segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin. Questo è il punto.

E nessuno dovrebbe stupirsi dell’ondata di sdegno che hanno suscitato in tutta Italia le parole di chi, mentre costruisce lucidamente il suo consenso con politiche di egoistica chiusura, invoca poi la protezione della Vergine e si presenta come difensore della “civiltà cristiana”.

«La fede è ben altra cosa – ha ricordato il presidente nazionale delle Acli, Roberto Rossini – serve a creare ponti e a superare le barriere del pregiudizio».

La fede è ben altra cosa: ce lo dimostrano quotidianamente le mille esperienze che germogliano in ogni angolo d’Italia. Ce lo ricorda l’impegno e la testimonianza di tutta la nostra Chiesa diocesana, a partire dal vescovo Claudio che fin dal suo arrivo tra noi non ha mai smesso di sottolineare con segni e richiami evangelici cosa significhi adoperarsi davvero per restituire un’anima cristiana alla società: investendo sui poveri, coltivando le relazioni e la dimensione comunitaria anche nei territori più lontani, dando impulso alla preghiera, scegliendo il servizio e non l’ostentazione del potere come stile distintivo del suo magistero.

C’è però un secondo tema che scorre sotto traccia e che l’intemerata di Salvini ha avuto quantomeno il merito di riproporre all’attenzione del mondo politico.

Che l’Europa non abbia saputo riconoscere nelle sue carte fondative quelle “radici cristiane” che ne segnano la storia e l’identità, ha finito per ritorcersi come un boomerang contro i sostenitori di un’idea di laicità che si è fatta, strada facendo e forse suo malgrado, culto del laicismo.

Martedì il card. Bassetti, nella sua introduzione all’assemblea generale dei vescovi italiani, ha chiesto a tutti noi uno sforzo, un rinnovato impegno a far sì che le virtù, la tradizione educativa, lo spirito di umanità che contraddistinguono l’Italia, la densità storica, culturale e religiosa di cui siamo eredi non rimangano lettera morta. «Non si vive – ha ammonito – di ricordi, di richiami a tradizioni e simboli religiosi o di forme di comportamento esteriori! Il nostro è un patrimonio che va rivitalizzato. Dobbiamo essere fieri di un cristianesimo che ha disegnato il Continente con il suo contributo di spiritualità e cultura, di arte e dottrina sociale. Di umanesimo concreto».

Affermare la laicità della politica e della società non significa dimenticare che la dimensione religiosa è costitutiva dell’uomo. Promuovere il pluralismo non significa cancellare il sacro dalla sfera pubblica per ridurlo a dimensione intimistica, specie quando siamo di fronte a grandi questioni etiche che tanto bisogno avrebbero della millenaria sapienza delle religioni. E coltivare i valori dell’integrazione non significa negare la propria storia, che trasuda di cristianesimo dalle sue città, dal suo pensiero filosofico, dalla sua arte.

Altrimenti, come si è visto a Milano, quella storia si finisce per consegnarla in ostaggio ad altri. Pensiamoci tutti, e ci pensi l’Europa chiamata oggi a un passaggio delicatissimo.

Non rassegniamoci a dover scegliere tra l’eclissi del sacro e i rosari da comizio.

 

Guglielmo Frezza

 

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