Nei mosaici delle chiese antiche, post-costantiniane, c’è un evidente fiorire della natura in corrispondenza della presenza del Signore Gesù. Ricorre spesso l’uso dell’erba, del pascolo, dei più vari elementi vegetali, come nell’abside della basilica di San Clemente a Roma, dove girali di acanto si dipartono dall’albero della Croce offrendo riparo agli uccelli del cielo. Il primo fiore che ha aperto i suoi petali è il grembo di Maria; le melodie dei canti popolari dedicate alla Vergine la chiamano infatti giglio. Il deserto fiorirà – i profeti lo hanno ripetuto sempre. Un mondo senza i fiori è lo stagno del male, del peccato, è un luogo dove non c’è Dio.
La coincidenza dell’epoca cosmica del rinnovarsi della natura con il tempo della Pasqua del Signore non è casuale. Se il popolo d’Israele è uscito dall’Egitto con il plenilunio di primavera, Dio non lo ha permesso accidentalmente; già disegnava, seppure nell’ombra, il rifiorire della vita. La relazione tra la Pasqua del Signore e la primavera che sboccia è nell’ordine della gratuità assoluta per cui Dio ci ridà la vita senza nostro merito e ci pone perfino nella condizione di dirgli grazie. Compie la sua opera in un tempo, in un clima, in cui il cielo, la terra, le piante, gli animali, la natura sembrano tutti in atteggiamento di preghiera.
Il Signore Gesù ha scelto come linguaggio della propria vittoria il nascondimento, la compostezza assoluta, la familiarità di un “Pace a voi”. Così i germogli che bucano i rami secchi e scuri degli alberi, l’erba nuova, lo spandere profumo e poi l’affacciarsi dei colori, i petali impalpabili: tutto è un’immensa celebrazione, ma con uno stile pacato. Un fiore di pesco che sboccia su un ramo, o una rosa che si apre, o anche una semplice margherita, una violetta, un nontiscordardimé, o i campi gialli di colza, sono silenziosi. I fiori non sono mai sfacciati, non richiamano; ci si ferma e li si ammira. Raccontano Ecco la vita, senza gridarlo, senza imporsi, senza proclamarlo con enfasi. Ed è lo stesso modo con cui Gesù ha manifestato la sua risurrezione.
L’uso dei fiori nella Liturgia dev’essere pensato con una prospettiva biblico-teologica; non di arredo, di abbellimento, di apparato, ma di adesione. Se le norme chiedono che non vengano posti sulla mensa dell’altare è perché non si ricrei il contesto del banchetto, del “buffet di gala”. E non è nemmeno il caso di comporre un “presepio” di primavera in cui all’ambone si dà la forma del sepolcro vuoto spalancato, con accanto una pietra rotolata, un lenzuolo che esce. Non collezioniamo didascalie, allegorizzazioni, per cui in Quaresima abbonda la sabbia, a Pentecoste i petali rossi…
La composizione floreale dev’essere evocativa, non scenografica. I fiori vanno liberati, non costretti da forme create da noi, disegni geometrici, abbinamenti con legni, sabbia, sassi, stoffe, candele. C’è bisogno della loro purezza, della loro assoluta eloquenza, sciolta da ogni altro linguaggio. Il rimando all’adesione gentile dei fiori allo stile del Signore (di cui è segno eminente, appunto, la “luce gentile” del Cero pasquale) vorrebbe aiutarci a cogliere ciò che avviene sacramentalmente sul presbiterio, tra la roccia del sacrificio e il sepolcro spalancato. A intuire il mistero della Croce di Gesù.
Il fiore è immolato, è la bellezza (il “bel pastore” del Vangelo di Giovanni) che si sacrifica. Il ministero del fiore è questo genere di vittoria: esso è bello – reciso. È luce, profumo e colore – reciso. È sacrificato e, allo stesso tempo, dal suo sacrificio dà a chi lo guarda la pace, la gioia, la vita.
Il fiore è una metafora bellissima del sacrificio del Signore. Non a caso i martiri venivano spesso descritti come fiori recisi per Cristo.
Le composizioni siano prive di leziosità. È bene evitare gli ammassi, ricercare la purezza, una nobile semplicità. Anche solo una rosa accanto a un crocifisso, un mazzo di fiori di campo, trenta margherite bianche nell’acqua… Abbiamo bisogno di ingentilire lo spazio, di dargli la morbidezza, il tratto delle mani di Dio che hanno plasmato questo cosmo, per ricordare al nostro cuore che la Pasqua è nuova creazione.
Quando la Quaresima chiede l’assenza dei fiori, nella denudazione di tutto, le chiese si fanno spigolose, fredde; sono pietra, marmo. Al mattino di Pasqua, il profumo dell’incenso che ancora aleggia dalla Veglia e i fiori che sono tornati ammorbidiscono immediatamente la nostra anima. In questa occasione si potrebbe evocare il giardino del Risorto con vasi di piante che donino le loro fioriture lungo le settimane in cui risuona l’eco del grande Alleluja. La risurrezione, la vittoria di Gesù può essere colta in tutta la sua potenza e bellezza solo se l’anima è ammorbidita, se non è di pietra.
Alcuni criteri pratici: abbandoniamo l’idea di qualche vaso che arredi, dello sfarzo, del salone barocco, del riciclaggio. Le chiese non sono serre. L’eccesso toglie nobiltà alla forza che hanno anche solo pochi fiori accanto alla nuda pietra dell’altare, dell’ambone. Vanno smontati gli apparati commerciali tipici delle esequie o dei matrimoni, mettendoci la nostra anima, il nostro cuore, il nostro grazie al Signore con poco, non con molto.
I fiori non sono da usare come i soprammobili a casa. Stanno nei pressi dell’altare, circondano l’ambone: fine. L’omaggio di adorazione al tabernacolo o alla Vergine Maria si limiti al tocco, all’‘appena’. Un vaso semplicissimo con tre rose…
Comporre questi vasi deve attingere al nostro personale grazie a Gesù ed è una sensibilità da creare, nelle parrocchie, con la dignità di un autentico ministero. Non si riduce a un gioco di piante da spostare. Le persone che se ne assumono l’impegno potrebbero avere anche molto da lavorare per assicurare fiori nobili, puliti, eliminando fiocchi, carte, coprivasi, plastiche trasparenti. Funerali, matrimoni, omaggi affettivi fanno sì che si raccolga molto materiale e la cosa più sbagliata è infilare in tutti gli angolini degli altari laterali piante su piante o composizioni rigidamente legate all’occasione. Decostruendo gli apparati, si colga di fiore in fiore il meglio, per poter porre sui nostri presbiteri questo segno così puro, così eloquente, così immediato. Il tutto sia finalizzato al fiorire del luogo dove celebriamo la Pasqua del Signore, con una semplicità assoluta.
Bisogna assumere un tratto teologico nell’uso del fiore, dandogli nobiltà e semplicità, con una costanza pasquale. Un criterio è bene che ci accompagni: eliminare tutte le relazioni scontate con i tempi liturgici e i loro colori. Esse rischiano di rendere meno evidente l’unità teologica dell’anno liturgico, la preminenza della Pasqua su ogni declinazione delle stagioni, l’assoluta centralità del mistero pasquale del Signore, che è davvero il nostro fiore, l’unico nostro fiore.
don Gianandrea Di Donna, responsabile Ufficio per la Liturgia