Solennità del Corpus Domini

Non possiamo disgiungere l'annuncio dalla testimonianza concreta - l'omelia del vescovo Claudio

Cattedrale di Padova strapiena di fedeli per la celebrazione eucaristica nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, presieduta domenica 23 giugno dal vescovo Claudio. Presenti fedeli e autorità cittadine che al termine della messe hanno partecipato alla processione eucaristica lungo le vie della città fino alla basilica del Carmine, per la conclusione con la benedizione.

Di seguito l’omelia del vescovo Claudio.


I discepoli erano stati inviati da Gesù ad annunciare il Regno e a guarire gli infermi, e dopo questa esperienza che li aveva impegnati e provati, tornano da Gesù. Una missione impegnativa. E quindi raccontano a Gesù quanto avevano fatto. È per questo che Gesù, con un tratto molto fine, familiare, li prende con sé e si ritira in disparte, perché si riposino, per riposarsi insieme. Ma le folle vengono a saperlo e lo seguono.

Quello che avviene in questo contesto porta a completare il tempo della formazione che Gesù riserva ai suoi discepoli. Come quando dopo la sua morte e Risurrezione, sempre Luca presenta la figura dei due discepoli lungo la strada di Emmaus. E completa anche per loro il cammino di formazione e li rimanda alla comunità, a Gerusalemme. La meta per noi discepoli, per i pellegrini non è ancora raggiunta, la strada che abbiamo davanti è ancora lunga.

Degli insegnamenti di Gesù proposti nella fatica e resi possibili proprio dallo sforzo dell’impegno apostolico, vorrei richiamarne soltanto alcuni.

Il primo riguarda la necessità di non disgiungere l’annuncio del Regno dai miracoli di guarigione. I discepoli prima, e Gesù stesso – all’inizio di questo breve brano Gesù parla alle folle del Regno e guarisce quanti avevano bisogno di cure -, tengono strettamente uniti tra loro questi due aspetti. Parlare di Dio, del suo amore, della sua signoria; la certezza che Lui è il Signore della vita e della storia e che poco a poco, come un seme gettato nel silenzio della terra, il Regno cresce, non può essere separato dalla necessità di parlare dello stesso Regno con le guarigioni. Senza speranze, sogni senza ideali, senza una vocazione alta, il nostro agire e il nostro operare si indebolisce, ma senza il nostro agire e il nostro operare, le nostre azioni e il nostro impegno, l’annuncio rischia di non essere riconoscibile.

Qualcuno ogni tanto tenta di separare questa duplice azione, l’annuncio del Regno e le guarigioni, e sostiene che la Chiesa e le nostre comunità dovrebbero avere soltanto riferimenti spirituali, parlare di Dio.

Ma da sempre, e noi padovani in modo particolare ne siamo testimoni, in realtà noi cristiani siamo attenti a non separare; quando le comunità dei discepoli vedono le sofferenze e se ne fanno carico con le possibilità che il Signore ha posto nelle loro mani, parlano e traducono questo vangelo.

Oggi, in particolare, l’annuncio del Regno ci porta a guardare con misericordia e ad accogliere immigrati e profughi, ma le nostre comunità continuano a occuparsi di disabili, di anziani, di minori, di sfruttati… da sempre aiutiamo a risolvere e ad andare incontro alle povertà negli stessi Paesi di origine degli immigrati; molti di noi si stanno interessando di ambiente, altri di giustizia, ognuno con i doni e con i carismi e nelle occasioni storiche che sono presentate. Cioè noi, discepoli di oggi, ci sentiamo mandati là dove un uomo soffre, dove la libertà e la dignità sono compromesse, dove la vita, dal suo nascere al suo morire, non viene rispettata o sufficientemente onorata.

Lo stesso impegno di annuncio del Regno e di guarigione abbiamo voluto evidenziarlo quando due anni fa, e questa celebrazione ci ricongiunge a quella esperienza, abbiamo riaperto la chiesa di Santa Lucia (o del Corpus Domini) per l’adorazione permanente della presenza del Signore e per la preghiera incessante a favore delle nostre Città. Da allora, sempre, qualcuno ha invocato e pregato il Signore ininterrottamente, in adorazione della sua permanente presenza in mezzo a noi, sempre 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno.

Contemporaneamente, sempre due anni fa, abbiamo dato inizio alla Fondazione Nervo-Pasini per la gestione dell’altro santuario, quello delle Cucine popolari. Sono due aspetti della stessa fede nel Signore Gesù che manda i suoi ad annunciare il Regno e a guarire gli ammalati.

Non possiamo dunque separare l’annuncio dalla testimonianza concreta. Non possiamo dichiararci discepoli del Signore e negare Dio e servirlo nella vita di ogni uomo. Ho citato soltanto alcune delle opere diocesane ma volendo dare valore anche a tutte quelle iniziative di carità, di solidarietà, di giustizia che molte famiglie e persone hanno intrapreso in termini più personali e che sono maturate nella fede, nel vangelo e nella parola di Gesù. Dobbiamo continuare, forse possiamo fare anche di più o fare meglio, ma dobbiamo continuare a tradurre la nostra fede in opere e ad alimentare le nostre opere dalla fede e ad annunciare in questo modo il Regno di Dio che avanza.

Un secondo aspetto che ci viene insegnato da questo vangelo è quello della sincerità, sincerità innanzitutto con noi stessi. Scatta nei discepoli, che ci vengono presentati da Luca, il meccanismo della proiezione, quello cioè di vedere e proiettare negli altri i nostri problemi. Noi abbiamo fame, noi abbiamo paura, noi ci sentiamo preoccupati per il futuro, ma non vogliamo riconoscere la nostra debolezza e quindi, in un certo senso, umiliarci. Allora, inconsapevolmente, diciamo, come hanno fatto i discepoli: “Guarda che la gente ha fame, che la gente ha paura, che gli altri sono preoccupati, non sanno dove dormire, non hanno nulla da mangiare”. Ma questo era il problema dei discepoli e dicono quindi: «Congeda la folla per alloggiare e trovare cibo». È significativo che Gesù a questo invito dei discepoli risponda dicendo: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta».

In realtà, loro erano preoccupati di se stessi e hanno usato la folla per cercare sicurezza. Sicurezza che diventa sinonimo di chiusura. Erano stanchi, certamente molto stanchi, venivano da una missione e, forse, quindi giustificati nel chiedere per se stessi un po’ di riposo e di riservatezza; ma il Signore sa che proprio nella stanchezza emerge la nostra verità e possiamo conoscerci ed essere conosciuti. Quel bisogno di ospitalità e di cibo è il bisogno di ospitalità e di cibo di ogni discepolo.

Gesù insegna una strada nuova per vincere il ripiegamento su se stessi e la ricerca della propria sicurezza: l’insegnamento è quello di un forte, sicuro abbandono all’obbedienza della sua Parola. Come quando aveva incontrato Pietro e Pietro ha risposto dicendo: «Sulla tua parola getterò la mia rete». Oggi, in questo vangelo Gesù dice: «Date loro voi stessi da mangiare!». E i discepoli obbediscono.

L’apertura alla condivisione e alla solidarietà, dà forza al discepolo. Ma nell’espressione di Gesù si va anche oltre. Gesù invita a fare della propria vita un dono: «Date voi stessi da mangiare». Io lo interpreto come un dare la propria vita. Come il pellicano a cui fa riferimento un antico inno eucaristico, e tante raffigurazioni del passato; come Gesù che prende la sua vita e la dona al Padre e ai suoi fratelli e per ogni uomo, soprattutto se è debole. Così, noi stessi siamo invitati a fare della nostra vita un dono. Ma permettete che dica che abbiamo già tante esperienze, proviamo a guardare nelle nostre case cosa facciamo per i nostri figli, diamo più di quello che sarebbe doveroso o richiesto. Diamo la nostra vita per i nostri figli. Guardiamo quanto amore nasce da noi, in noi, quando in casa qualcuno cade nella malattia, nella sofferenza. Tutti ci prodighiamo e diamo di noi stessi. Cambiamo l’organizzazione della casa, cambiamo l’organizzazione dei nostri tempi, diamo tutto quello che abbiamo e senza alcuna recriminazione, senza dispiacere.

In questo contesto, siamo anche noi trascinati da Gesù a dare la parte più bella di noi stessi, cioè il nostro amore. Ne siamo capaci perché siamo uomini e donne. Siamo invitati ad amare con la forza di Gesù e con la misura del suo cuore. Lasciarci guidare dalla parola di Gesù significa essere portati ad amare con tutto noi stessi fino a dare la nostra carne e la nostra vita. Come Gesù.

Nella fatica scattano le nostre difese e chiusure, ma la fatica è anche occasione importante per portare i discepoli a compiere un ulteriore passo verso la realizzazione di sé nell’amore. Non secondo il mondo ma secondo l’insegnamento dell’amore.

Non è soltanto pane materiale quello che viene moltiplicato, ma è l’amore; quell’amore di cui tutti abbiamo tanto bisogno, che è nutrimento e senso della vita di ognuno.

Questa sera attraverseremo una parte della nostra Città, la attraversiamo con questo messaggio rappresentato dall’Eucarestia che con tanta solennità, tanto onore e tanto rispetto vogliamo portare nella nostra Città: il Signore Gesù invita i discepoli, noi innanzitutto, a dare noi stessi da mangiare ai nostri fratelli, alla nostra Città, e presentiamo questa strada, la strada dell’amore di Gesù come salvezza del mondo.

 

+ Claudio Cipolla, vescovo di Padova

 

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