Sono nato nella prima metà degli anni ‘80. Faccio parte di una generazione che, nell’arco della propria iniziale parabola di vita, ha visto esplodere le possibilità personali. Una “libertà di” crescita incredibilmente agganciata all’idea di un mondo alla portata. Con i suoi lati positivi e negativi. La generazione iperconnessa dal 56k al 5G, la generazione Erasmus, la generazione che ha iniziato a lavorare sotto la crisi del 2008. Probabilmente abbiamo un’idea del mondo diversa da quella dei nostri genitori alla stessa età: più veloce, più complesso, meno prevedibile ma comunque ricco di opportunità.
E poi, da un giorno all’altro, ci ritroviamo chiusi in casa. Scopriamo che non possiamo uscire, non possiamo correre, non possiamo incontrare gli amici, non possiamo andare a lavorare. Tutto così repentinamente che il passaggio di stato fa pensare a una frattura: una rottura di usi e abitudini che richiederà tempo per essere ricomposta, sperando che la calcificazione renda più resistente la struttura (sanitaria, sociale, culturale,…). Non abbiamo avuto altre esperienze così coinvolgenti di fratture. Certo ci sono situazioni personali ben più devastanti di quanto “in media” possiamo sentirci colpiti dal coronavirus, ma la differenza è che ora ci siamo in mezzo tutti, in questo stand-by dal risvolto esistenziale: gran parte delle cose che sembrano avere valore e che nutrono di significato la vita sono compresse, alleggerite o addirittura sospese.
Uno stand-by che svuota, il singolo e il popolo. Ricorda il respiro, analogia un po’ cruda viste le circostanze, ma calzante.
Le nostre vite piene, spesso esuberanti, con le agende gonfie di cose buone (ossigeno) e anche di scarti, sono costrette a svuotarsi. E in questa dinamica, che alcuni scenari dei prossimi mesi dipingono ritmica in base all’evolvere della situazione, ci può stare una consapevolezza. La stessa che viene stimolata negli approcci alla preghiera, alla meditazione, alla mindfullness: attenzione al respiro per essere consapevole di sé, innanzitutto come essere vivente.
Una dinamica che sembra apnea ma è l’esatto contrario. Non sono sospeso, sono vivo. Una dinamica che mi invita a guardare in faccia l’esistenza nella sua essenza, a dirmi cosa conta veramente, a esercitarmi nella consapevolezza che esisto, soprattutto se so stare. Nel presente. E in questi giorni, a casa. Come singolo e come popolo.
Giorgio Pusceddu, Ufficio diocesano di Pastorale dei Giovani
3 aprile 2020