La quarta porta della carità

Entriamo a Santa Sofia

santa sofia

È una porta nascosta quella che andiamo a varcare. Si cela agli occhi dei passanti, tra palazzi e vie del centro città. All’ombra di una chiesa che a Padova ricorda le radici di una fede antica, si sentono risuonare i passi di una comunità che non ha paura ad accogliere.

Entriamo a Santa Sofia. Quattro le chiavi che ci servono: coinvolgimento, accoglienza, dare e farsi cibo, riconoscimento.

 chiave   La chiave del coinvolgimento

Vivere la carità non per chiudersi, ma per coinvolgere. È la direzione su cui sta camminando da anni il gruppo Caritas della parrocchia e i frutti già si vedono. «Cerchiamo che ogni iniziativa e progetto – sottolinea il parroco, don Giorgio Ronzoni – siano i meno episodici e individuali possibile. È vero che il vivere la carità è legato alle proposte concrete, ma il tutto si realizza anche nello sforzo di individuare persone, di età diverse, che possano dare il proprio contributo. C’è chi si mette in gioco in prima persona, chi contribuisce dall’esterno, chi non si lascia coinvolgere… Questo fa parte della vita”normale” di una famiglia: l’importante è non perdere l’obiettivo del camminare insieme, senza chiudersi». È una carità che non ferma e si esaurisce dentro le porte di Santa Sofia. «Alcuni volontari, in particolare giovani, la sera passano in stazione per portare bevande calde ai senza fissa dimora e frequentano, anche fuori dal centro parrocchiale, luoghi di attenzione a chi è in difficoltà».

chiave   La chiave dell’accoglienza

Il gruppo Caritas è attivo nello sportello settimanale del Centro di ascolto vicariale, nella raccolta di cibo e di indumenti usati per l’Armadio dei poveri di Santa Croce, nella gestione dei pranzi di solidarietà, ma sta progettando l’apertura di nuove frontiere dell’accoglienza.

«Da due anni stiamo lavorando – spiega il parroco –  per realizzare un nuovo desiderio: poter ristrutturare e dare alla cooperativa Vite vere Down Dadi un appartamento sfitto della parrocchia. Ci viveva il sacrestano. È chiuso da anni, ma coperto da vincoli della Sovrintendenza. Speriamo che il 2017 segni davvero l’avvio di questo progetto per garantire i percorsi di autonomia, anche lavorativi, di questi ragazzi. Continua il nostro impegno per ottenere i permessi di ristrutturazione e le risorse economiche necessarie. Pensiamo davvero sarebbe bello e importante come comunità inserire al nostro interno anche questa realtà e questi giovani affetti da disabilità».

Per parecchi mesi, il patronato ha accolto 2 profughi, ospiti dell’Istituto San Massimo. «Li abbiamo inseriti in comunità e coinvolti in alcune attività, come pure sostenuti nell’imparare la lingua, con lezioni gratuite di italiano».

 

chiave   La chiave del dare e “farsi” cibo

Sono 22 i volontari parrocchiani di Santa Sofia che ogni seconda domenica del mese, dal 14 marzo 2004, accolgono per il pranzo di solidarietà gli ospiti delle Cucine popolari. In media arrivano in patronato un’80na di persone, per la maggioranza italiane: giovani o meno, donne e uomini, chi vive per strada, chi ha un tetto sopra la testa ma non riesce a pagare utenze o a comprarsi cibo, chi gira il mondo in bicicletta, chi col mondo è arrabbiato…

«La nota comune – racconta Roberta Zago, una volontaria – è che non vengono qui solo per mangiare: c’è chi poi si ferma per risposare, chi per giocare a carte, chi per chiacchierare. E si sono create delle belle amicizie. Siamo tutti diversi, ma tutti bisognosi dell’altro, di una parola, di sentirci riconosciuti e vivi».

I volontari cucinano il pranzo e lo distribuiscono, garantiscono a loro spese, a turno, il secondo per tutti e si siedono tra gli ospiti per mangiare e chiacchierare.

«Abbiamo anche lanciato una proposta culturale che una 30na dei nostri ospiti ha accolto con favore: sulla spinta di papa Francesco che ha aperto la Cappella Sistina a 150 senza fissa dimora, abbiamo deciso di offrire ai nostri ospiti non solo il pranzo e il successivo momento conviviale, ma anche una visita guidata ai vari artistici e culturali della città». Sullo slogan “Cibo per la mente” è stato avviato un itinerario di visite culturali: dalla chiesa stessa di Santa Sofia,  alla Cappella degli Scrovegni, all’Orto Botanico. «È stato apprezzato davvero tantissimo!».

 

chiave    La chiave del riconoscimento

Carità è non solo offrire dei servizi e rispondere a dei bisogni. È prima di tutto “accorgersi” di chi abbiamo accanto e farlo sentire persona.

È quanto è accaduto e sta accadendo, grazie alla cura e attenzione dei volontari dei pranzi di solidarietà ad Aristide: dopo aver vissuto dieci anni sulla e per la strada, oggi ha di nuovo una carta d’identità e un suo posto riconosciuto nel mondo.

«Abbiamo conosciuto Aristide grazie all’esperienza del pranzo di solidarietà – racconta Roberta –  Dal 2005 dormiva in galleria Zabarella, e quando lo incontravamo per strada o ai pranzi si mostrava cupo, isolato, con poca voglia di dialogare e molto trascurato nell’aspetto. Passava le giornate su una panchina in via Jappelli, circondato dai suoi sacchetti, in cui continuava ad ammucchiare roba vecchia e raccolta dai cassonetti».

Aristide, 65 anni originario della provincia di Rovigo, è un uomo buono e discreto. Con lui i volontari creano fin da subito un bel rapporto e si prendono a cuore la sua situazione. «Per il suo carattere e per la sua patologia, Aristide non voleva andare a dormire al Torresino. Dopo aver preso contatti con i servizi sociali del Comune, abbiamo individuato come soluzione un’accoglienza temporanea nel nostro patronato».

Dall’8 aprile 2016 una stanza della catechesi viene trasformata in camera da letto per Aristide. Lui arriva qui ogni sera dalle 20.30 e esce il mattino presto per poter così svolgere il lavoro che da sempre è la sua fonte di reddito in questi anni di strada: trasporta infatti dei banchetti dal ricovero in centro al mercato della frutta.

«Lo abbiamo seguito e curato come un figlio, prendendoci cura della sua persona e quindi aiutandolo anche a lavarsi e mantenersi pulito e decoroso nell’aspetto, lo abbiamo seguito nelle visite mediche e rifornito di molti libri da leggere. La sua passione».

Grazie all’attenzione dei volontari, Aristide oggi ha la sua carta d’identità e il codice fiscale e da dicembre 2016 percepisce la pensione sociale. Lavora attivamente in un orto gestito dall’associazione Elisabetta d’Ungheria.

«Ci dicono – sottolinea don Giorgio –  che è il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Lavora con molta passione e  cura. È tornato ad avere un nome e un’identità nel mondo». «Abbiamo subito capito – aggiunge Roberta –  che era necessario avviare con lui un accompagnamento ad hoc che davvero rispondesse alle sue caratteristiche personali: 10 anni di vita di strada non si possono cancellare, lasciano cicatrici… Non chiede mai niente e non esterna sempre tutto, ma lo vediamo contento. E noi di conseguenza!».

Il cammino verso l’autonomia di Aristide non si ferma. Da novembre, in accordo con i servizi sociali del comune, condivide un appartamento con altre quattro persone, seguito anche da un supporto psichiatrico. Con la certezza che la sua famiglia di Santa Sofia continua ad essergli accanto e a chiamarlo per nome!

Claudia Belleffi

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